Si chiude con un non luogo a procedere che conferma le motivazioni della sentenza di primo grado il processo di appello (penale) nei confronti della così detta ‘dipendente infedele’ licenziata nel 2017 dal Comune di Assisi (senza attendere il processo, come da Legge Madia) dopo un’indagine dei carabinieri che aveva dimostrato come l’ex dipendente dell’ufficio turismo sarebbe per quattro volte uscita prima dal lavoro per andare in palestra. Il processo penale era per l’erronea certificazione delle quattro ore, dovuta al fatto che all’ufficio turismo, dove l’ex dipendente comunale lavorava, non c’era un marcatempo e le ‘scartoffie’ venivano compilate anche giorni dopo.
Ma “un fascicolo nutrito di indagini difensive”, spiega al Corriere dell’Umbria l’avvocato della ex dipendente, Elena Ferrara, dimostra, anche con testimonianze, come nei giorni contestati la ‘dipendente infedele’ avesse saltato la pausa pranzo, mangiando solo un panino e tenendo l’ufficio aperto. In attesa delle motivazioni, in estrema sintesi, è stata dimostrata la tenuità del fatto e che non ci sono i presupposti per la punibilità penale. Il Comune aveva provato a costituirsi parte civile nella vicenda, ma il gup non aveva ammesso l’Ente, perché era stata accolta la tesi difensiva dei legali, Siro Centofanti e appunto la Ferrara, secondo cui, avendo il Comune già ricevuto il risarcimento di 64 euro, era stato già risarcito di quanto la giovane, modificando l’orario di uscita a seguito di lavoro continuato e ininterrotto, avrebbe indebitamente percepito.
Come noto dalle indagini del 2017, partite da una soffiata anonima, era nata una causa che si era divisa in tre “tronconi”: oltre a quello penale, erano stati coinvolti anche il giudice del lavoro e la Corte Costituzionale, interpellata se fosse equo pagare una mancanza di poche decine di minuti con sei mesi di stipendio (e dopo che la giovane, come detto, ha risarcito l’Ente dei 64 euro che le sono stati contestati). Con una sentenza valida in tutta Italia, la Corte aveva “cassato” i sei mesi di stipendio quale risarcimento, invitando il giudice a determinare “il danno in concreto, che si presume pari al doppio del danno patrimoniale”.
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